– di Niccolò Poli.
La Suprema Corte, con sentenza n. 5487/2019, torna in tema di onere probatorio (per responsabilità medica) relativo al nesso di causalità ed al principio di “vicinanza” della prova.
Il caso prende le mosse dal decesso di un paziente, recatosi per ben tre volte presso la struttura ospedaliera, avvenuto per ischemia cardiaca, occorsa 40 minuti dopo le ultime dimissioni.
Lamentano i parenti danneggiati che ove si fossero svolti i debiti accertamenti clinici si sarebbe potuto evitare l’evento e che qualora il paziente non fosse stato “rapidamente” dimesso gli operatori del Pronto Soccorso sarebbero potuti intervenire prontamente ed evitare l’evento nefasto.
Il caso, sottoposto in prima istanza a procedimento penale, si era concluso con una richiesta di archiviazione a fronte delle risultanze peritali, le quali avevano accertato che, da un punto di vista penalistico – ove in tema di nesso di causalità vige il principio della “ragionevole certezza” – non sussistevano elementi probatori atti a supporto dell’azione penale. La prima sentenza precisava tuttavia come, da un punto di vista civilistico – ove invece vige il principio del “più probabile che non” – si sarebbe trovata “ampia dignità” della pretesa.
La Corte d’Appello di Venezia, riformando la sentenza di primo grado, affermava che “il Tribunale aveva attribuito rilevanza causale al fatto della mancata presenza del de cuius presso il PS al momento dell’episodio, presumibilmente ischemico, che lo condusse al decesso e, quindi, al fatto del mancato utilizzo tempestivo del defibrillatore, sicché l’omissione imputata ai sanitari del Presidio di Guardia Medica non si è inserita nella serie causale che ha condotto all’evento di danno, ma si configura come una sorta di occasione mancata.
Pertanto per la Corte d’Appello, anche ove il paziente si fosse trovato presso la struttura sanitaria al momento del fatto, non era stato provato dai danneggiati se ivi vi fosse personale di PS pronto ad intervenire e se l’utilizzo del defibrillatore avrebbe evitato l’evento nefasto.
La Cassazione ha affermato i principi da applicarsi in tema di responsabilità per attività medico-chirurgica statuendo che “nei giudizi risarcitori da responsabilità sanitaria, si delinea un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)”. Per tale effetto la Corte ha affermato che “una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da causa non imputabile“.
Nel rispetto del principio del “più probabile che non” la Corte ha ritenuto sussistente il nesso di causalità tra la condotta negligente (posta in essere nel corso delle tre visite) e l’evento nefasto occorso, rilevando altresì come invece il nosocomio non avesse in alcun modo provato la sussistenza di una causa non imputabile atta ad interrompere il nesso causale.
In tema di responsabilità medica questo studio ribadisce (in base alla propria esperienza) come diventi sempre più importante una valutazione di insieme di tutti gli aspetti della vicenda che, agli occhi di un non esperto, potrebbe sembrare di pronta e facile soluzione ma che invece, da un punto di vista giuridico, rileva non poche insidie e complessità.