– di Mario Dusi.
Definire qualcuno mefistofelico è diffamazione: è quanto ha stabilito la Suprema Corte italiana nella sentenza n. 11767 del 12 aprile 2022.
La vicenda era sorta a seguito dell’affissione nelle strade di Foggia di un manifesto in cui l’amministrazione dell’allora sindaco veniva definita “mefistofelica” e “protesa a far sprofondare” la città “negli abissi più degradati del loro inferno”. Il primo cittadino aveva pertanto convenuto in giudizio l’autore, chiedendo che fosse condannato al risarcimento dei danni per aver leso il suo onore, la sua dignità e la sua reputazione personale.
Dopo due gradi di giudizio, la Cassazione ha affermato che il diritto di critica politica “consente l’uso di toni aspri e di disapprovazione anche pungenti, purché sempre nel rispetto della continenza, da intendere come correttezza formale e non superamento dei limiti di quanto strettamente necessario al pubblico interesse”. L’uso di “parole forti e toni aspri”, pertanto, benché tollerato nell’esercizio del diritto di critica, non può risolversi in “attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui”.
La Cassazione ha, poi, superato la questione della prova relativa al “fattore religioso”, ritenendo che “l’accostamento al diavolo” abbia “carattere offensivo anche a prescindere dalle convinzioni religiose di ciascuno”.
Attenzione quindi: in Italia definire una persona (e soprattutto un politico) “diavolo” comporta l’obbligo al risarcimento dell’onore leso; forse a mandare al diavolo si risparmia!