– di Mario Dusi.
Con una importante sentenza datata 13 luglio 2018 (la numero 18643), la Suprema Corte ha per la prima volta (con particolare precisione) contestato e cassato una presa di posizione della Commissione Tributaria Centrale di Roma, statuendo che l’Amministrazione Finanziaria non può basare solo su presunzioni la esistenza di remunerazione della carica di amministratore di una società, con ciò sottoponendola a tassazione.
Nel caso di specie, la Commissione Tributaria Centrale aveva basato l’obbligo impositivo in capo all’amministratore principalmente (se non unicamente) basandosi sulla ristretta base azionaria della società, ragionando sul fatto che la distribuzione di utili (da questi percepiti in qualità di socio) fossero in realtà puri emolumenti, appunto da tassare.
La Suprema Corte ribadisce, per la prima volta in modo molto fermo, il fatto che “In materia di accertamento delle imposte sui redditi l’amministrazione finanziaria non può pretendere, presumendone la onerosità, di assoggettare a tassazione il compenso di un amministratore di una società in mancanza di prova contraria da parte del contribuente, non potendo la stessa fondare tale pretesa su una presunzione, inconferente in presenza di un diritto disponibile, quale quello dell’amministratore al compenso da parte della società.”.
Da tale ragionamento si evince il fatto che gli amministratori possono anche svolgere il proprio incarico senza compenso e dunque senza subire la relativa tassazione, fatta salva la prova dell’esistenza di quel compenso non dichiarato.
Lentamente, da alcuni anni, questo studio osserva (nello svolgimento della professione anche in questa materia) una maggior precisione della Suprema Corte nell’imporre anche a carico della Pubblica Amministrazione concetti e presupposti di diritto che non sempre hanno trovato applicazione nei confronti degli Uffici Pubblici; il tutto a maggior tutela delle aziende e dei privati.